La tradizione della vendemmia a Ischia si rinnova

Far parte della festa della vendemmia dell’uva è un’esperienza davvero unica da vivere. Si corre indietro nel tempo a quando tutto era reso più genuino dal contatto con la terra. Ad Ischia, è un rito che si espleta ogni fine estate fra metà settembre ed inizio ottobre. Quando poi viene San Martino, l’11 novembre, si scopre il risultato: l’assaggio del vino nuovo è festa. Novembre ad Ischia è spesso mite e brindare insieme riscalda ancora di più l’atmosfera. 

Il rito della raccolta dell’uva

L’uva ancora oggi raccolta viene raccolta a mano e trasportata poi trasportata sulle spalle in delle ceste o delle piccole cassette che ne preservano l’integrità. In qualche zona si utilizza ancora il mulo o l’asino invece nei vigneti più ripidi e impervi, come quelli a Frassitelli, sono state oggi introdotte delle monorotaie. I tradizionali contenitori per trasportare l’uva sono in legno di castagno come tini; ‘u tavut, la cassa rettangolare per il trasporto sul mulo e cassette. Le vendemmie, specialmente in passato, erano tanto importanti da coinvolgere la famiglia intera.

Nella settimana precedente si pensava ai preparativi i quali richiedevano tanto lavoro e molta fatica come la pulitura di palmento, torchio e tini con acqua bollente, il lavaggio delle grandi botti, nelle quali si entrava per un risciacquo accurato con acqua calda e la pulizia con la scopa di mortella dura.

Il giorno d’inizio della vendemmia, poi, le operazioni da fare erano talmente tante che richiedevano destrezza e velocità. Le uve erano talmente preziose che tutti i residui delle varie fasi di lavorazione venivano riciclati e riutilizzati. La raccolta delle uve cominciava di primo mattino. Il grappolo veniva reciso dalle viti con un coltello ricurvo o con delle forbici e poi fatti ricadere all’interno dei tini.

L’uva veniva trasportata nelle cantine e scaricata all’interno palmento, la grande vasca di lapillo battuto in cui avveniva la pigiatura (a’ carcatura): gli uomini entravano a piedi nudi nel palmento e, con l’uva sino all’anca, pressavano i grappoli con movimenti ritmici e veloci, accompagnati dai canti popolari.

Il mosto della prima pigiatura scolava da un buco in una vasca più piccola, u t’niell”, posta sotto o’ doce, un monolite di pietra vulcanica bucato al centro che connetteva il palmento superiore a quello inferiore. Da imbuti in legno il mosto veniva riversato poi nelle grosse botti in cui avveniva la fermentazione, invece il liquido fuoriuscito sul fondo del palmento sottostante veniva recuperato mediante una paletta detta “sassola”. Per permettere al mosto di scorrere liberamente il residuo della spremitura veniva ammassato sulle pareti laterali del palmento. 

La torchiatura era la fase successiva che avveniva (sino a 50 anni fa) con il torchio di Catone, caratterizzato dall’utilizzo della pietratorcia. Oggi si utilizza il torchio a vite. Così si otteneva una soffice torchiatura che durava un paio di giorni. Questo mosto veniva poi aggiunto al mosto vergine e la botte veniva ricoperta con foglie di fico. La fase della fermentazione durava fra i 30 e i 40 giorni. 

La fine della vendemmia e la festa all’aperto

Alla fine si banchettava con una tavolata e il menù prevedeva la pasta al sugo di coniglio, i vini vecchi spillati in boccali di terracotta (arciulo e pizzepapere) ed il tipico coniglio ischitano alla cacciatora cotto nel tegame di argilla, (tian). Talvolta i festeggiamenti proseguivano con canti e danze. Finita la fermentazione, le botti venivano chiusa con tappi di sughero ricoperti di sabbia ed il vino veniva lasciato a decantare sino al mese di febbraio in cui, con la luna crescente, i contadini eseguivano la “sfecciata”, ovvero separavano il vino dalle feccie e lo travasava.

Invece, le uve da tavola che erano destinate al consumo familiare erano raccolte in canestri o contenitori in vimini e canna detti “cufanelle”. Sino a pochi decenni fa alle donne stava il compito di raccogliere la qualità di uva detta cuglienara dagli acini grossi, da cui, dopo l’essiccazione, si ricavava il vino detto “sorriso”.

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